TO CURE E TO CARE IN SITUAZIONI DI FINE VITA LA PROPORZIONALITÀ E LE CURE PALLIATIVE
FECHA DE RECEPCIÓN: 15-04-2009
FECHA DE ACEPTACIÓN: 20-05-2009
Elena Colombetti
Professore aggregato di Filosofia Morale e Ricercatore del Centro di Ateneo di Bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano,Italia. elena.colombetti@unictt.it
SINTESI
Per affrontare i temi bioetici inerenti alla fine della vita occorre mettere a fuoco la questione della proporzionalità dei trattamenti. Spesso la dimenticanza del limite intrinseco all’arte medica può sfociare in un duplice e contraddittorio atteggiamento: l’accanimento terapeutico da una lato, l’abbandono terapeutico dall’altro. L’incapacità di riconoscere nel concreto la finitezza porta infatti a non accettare la morte, a negare la sua ineluttabilità o a sfuggirla nella sua complessità antropologica ed esistenziale. La negazione del limite, inoltre, ha come esito anche un possibile rapporto conflittuale tra i medico e il paziente, con il risultato della strutturazione di una medicina difensiva e di stampo contrattualistico.
La proporzionalità di cui si parla è un criterio, e come tale richiede una valutazione puntuale, nella situazione, senza una rigida e aprioristica codificazione. Spesso, comunque, la ritrosia ad accettare, a livello sociale o nella comunità scientifica medica, il criterio di sospensione dei trattamenti quando questi si rivelano sproporzionati, nasce dalla confusione concettuale tra uccidere e permettere di morire, nonché tra omissione e sospensione. La differenza tra queste azioni sfuma solo se si sposta il peso della valutazione sull’intenzione o sulle conseguenze, la cui omogeneità veicolerebbe l’equivalenza morale degli atti. Nelle pagine che seguono si mostra inoltre la connessione della cura con il tema della qualità di vita e con l’importante campo delle cure palliative.
PAROLE CHIAVE: fine vita, cura, proporzionalità, accanimento terapeutico, sospensione dei trattamenti, qualità di vita, cure palliative.
ABSTRACT
An effort to address the bioethical issues inherent in the process of dying requires a focus on the proportional aspect of treatment. Failing to bear in mind the intrinsic limit to the art of medicine can result in dual and contradictory behavior: artificial support therapy on the one hand and therapeutic abandonment on the other. In real situations, the inability to recognize the limits of the power of medicine is, in one way or another, equivalent to not accepting death, to denying its inevitable role or to evading its anthropological and existential complexity. Moreover, denying that limit can lead to a possible conflict between the physician and the patient, resulting in medicine that is defensive and contractual in nature.
The proportionality in question is a criterion and, as such, it demands a particular assessment of the situation, without rigid and dogmatic codification. However, the reluctance that exists at the social level or within the medical scientific community to accept suspension of treatment when it is shown to be disproportionate is born of the conceptual confusion between unlawful death and permitting death; that is, between omission and suspension. The difference between these two acts disappears only if the weight of the assessment is shifted to the intention or the consequences, the oneness of which would unite the moral equivalent of the acts. The article also shows the relationship between treatment and quality of life and the important field of palliative care.
KEY WORDS: End of life, curing, proportionate, artificial support therapy, suspension of treatment, quality of life, palliative care.
RESUMEN
Para afrontar los temas bioéticos inherentes al proceso de fin de la existencia es necesario enfocar el tema de la proporcionalidad de los tratamientos. Con frecuencia el olvido del límite intrínseco del arte de la medicina puede desembocar en un doble y contradictorio comportamiento: de una parte la terapia de mantenimiento artificial y de otro lado el abandono terapéutico. La incapacidad de reconocer en la realidad concreta el límite del poder médico conlleva, de una forma o de otra, a no aceptar la muerte, a negar su parte ineluctable o a evadir su complejidad antropológica y existencial. Además, la negación del límite tiene como efecto una posible relación de confl icto entre el médico y el paciente, dando como resultado la estructuración de una medicina defensiva y de tipo contractual. La proporcionalidad de la cual se habla es un criterio, y como tal exige una evaluación puntual en la situación, sin una codifi cación rígida y a priori. Sin embargo, la reticencia a aceptar a nivel social o en la comunidad científica médica, el criterio de suspensión de los tratamientos cuando estos demuestran ser desproporcionados, nace de la confusión conceptual entre asesinar o permitir morir, entre omisión y suspensión. La diferencia entre estas dos acciones desaparece solamente si se desplaza el peso de la evaluación hacía la intención o hacía las consecuencias, cuya homogeneidad uniría la equivalencia moral de los actos. En las siguientes páginas también se muestra la relación del tratamiento con el tema de la calidad de vida y con el importante campo de los cuidados paliativos.
PALABRAS CLAVE: fin de la existencia, curación, proporcionalidad, terapia de mantenimiento artificial, suspensión de los tratamientos, calidad de vida, cuidados paliativos.
Quando in un dibattito pubblico si trattano questioni bioetiche di fine vita, è raro che ci si riesca a sottrarre all’impressione di trovarsi di fronte a una sorta di aut aut: o accettare l’eventualità di un accanimento terapeutico, o aprire alla concreta possibilità dell’abbandono e, con sempre maggior frequenza, all’introduzione di prassi eutanasiche. Poche volte il dibattito è sufficientemente equilibrato da affrontare l’argomento partendo dalla prospettiva della proporzionalità dei trattamenti. In una ricerca del 2003 condotta in tutte i reparti di rianimazione degli ospedali di Milano1, solo il 34% dei medici ha risposto di avere familiarità con il concetto di proporzionalità, segno che questo tema, benché centrale, fino a poco tempo fa era ancora sfuggente, poco presente nella prassi clinica e solo vagamente conosciuto al di fuori della stretta cerchia degli “addetti ai lavori”. Tale questione, fra l’altro, è strettamente legata anche ad un altro tema, solo apparentemente autonomo, che sta sempre più facendosi spazio in ambito bioetico e nella realtà medica, ossia quello delle cure palliative.
In questa nostra riflessione ci proponiamo un itinerario a due tappe. In primo luogo si tratterà di tracciare brevemente il quadro in cui, partendo da una rigorosa laicità metodologica del ragionamento, occorre collocare la riflessione sulla proporzionalità dei trattamenti; sarà poi compito dei singoli medici ed operatori sanitari entrare nel merito delle specifiche questioni delle diverse aree della medicina e, ancor più, delle singole situazioni cliniche in cui si trovano ad assistere e ad accompagnare i pazienti affidati alle loro cure. Secondariamente coniugheremo questo discorso con quello sopra citato delle cure palliative che, come concreta modalità del prendersi cura (to care), offrono un concreto esempio di una cura (to cure) che proprio nel riconoscere il concreto limite dell’umana finitezza, continua a mettere al servizio dell’uomo anche la medicina e il sapere scientifico.
PROPORZIONALITÀ E OGGETTIVITÀ
Il tema della proporzionalità dei trattamenti s’inserisce nel contesto di una medicina profondamente mutata. Lo sviluppo tecnologico ha aperto ampie prospettive diagnostiche e terapeutiche concorrendo a trasformare la medicina in una rete di saperi specializzati: senza cadere in alcuno stratagemma retorico, è evidente il passaggio dalla figura del medico di famiglia a quella della frammentazione della cura, dove l’accento è posto sulla parte corporea lesa o deficitaria. Se, da una parte, questo permette un’accresciuta possibilità di cura del paziente stesso, affidato al medico proprio nella dimensione fisica della sua identità, dall’altra non si può tacere il pericolo di dimenticare il soggetto la cui concreta debolezza si manifesta attraverso questa o quella patologia, questa o quella parte del corpo sofferente. Scriviamo “affidato al medico” non per una svista: proprio in un momento culturale in cui il rispetto dell’autonomia è giustamente messa a tema, non possiamo dimenticare che tale autonomia si dà sempre in una reciproca dipendenza, ossia, appunto, in un reciproco affi damento.
Tra i tanti lati di questo cambiamento dell’arte medica, occorre qui sottolineare la trasformazione dell’esperienza di alcune fasi cruciali della vita tra cui, paradossalmente, proprio quella del morire. L’ospedalizzazione del processo del morire ha mutato radicalmente la percezione di quell’evento, la morte, che, proprio quando sembra decretare la conclusione di una vita, coinvolge con intensità tutte le dimensioni della persona rimettendole in gioco. La cultura attuale ha per lo più bandito dal suo orizzonte la dimensione sociale e familiare della morte, relegando il malato terminale in una struttura ospedaliera in un contesto di forte medicalizzazione, dove il protagonista non sembra essere il morente, ma l’apparato tecnologico.
Il contrasto con l’accresciuto potere della medicina sembra stridere con questa realtà. Ciò che ieri era mortale, oggi è spesso curabile o cronicizzabile, patologie che poco tempo fa non avevano neanche un nome, oggi sono spiegate illustrandone le cause e il dinamismo. Non ci si può dimenticare, tuttavia, che la medicina vive su un paradosso: combatte strenuamente, ma sa che perderà l’ultima battaglia, quella decisiva. Perché l’uomo è mortale o, detto in altre parole, perché il morire appartiene alla condizione storica dell’uomo. La medicina non è fallimentare se l’oggetto della sua cura è il concreto essere umano, con un certo stato di salute. Qualora l’obiettivo sia invece la malattia, di cui il singolo essere umano è un caso, allora la sconfitta sarà, prima o poi, inevitabile.
La dimenticanza del limite intrinseco all’arte medica può sfociare in un duplice e contraddittorio atteggiamento: l’accanimento terapeutico da una parte e l’abbandono terapeutico dall’altra. Si tratta di due rami del medesimo tronco, perché l’incapacità di riconoscere nel concreto la finitezza del potere medico porta, in un modo o nell’altro, a non accettare la morte, a negare la sua ineluttabilità o a sfuggirla nella sua complessità antropologica ed esistenziale.
Negare il limite definitorio della medicina ha come conseguenza anche una artificale contrapposizione tra il medico e il paziente. Di fronte alle promesse fatte e alle aspettative suscitate, nasce la convinzione che, là dove si tocca con mano il limite, ci sia stata una negligenza, sia colpa di qualcuno. Ecco allora, per reazione, lo strutturarsi di una medicina difensiva, dove anche il consenso informato diventa un mero strumento cautelativo nei confronti di possibili sequele giudiziarie. Il risultato è quello di un modello contrattualistico, di prestazione di mano d’opera, in cui non si riconosce, con fatica e sforzo comune, che cosa sia bene fare, qui ed ora, ma si compra un prodotto che mortifica sia la scientificità del medico, sia l’umanità della relazione che ciascuno, particolarmente quando è sofferente, ha bisogno di instaurare con chi può e deve aiutarlo. Ma non possiamo rinunciare a trovare una oggettività nel prendersi cura dell’essere umano che garantisca, pur nella variabilità delle situazioni, il rispetto di colui a cui una malattia fa sperimentare con più acutezza la condizione umana di reciproca dipendenza.
Il criterio della proporzionalità dei trattamenti non è rigidamente codificabile a priori. Non si tratta soltanto dell’ovvio criterio di intraprendere di volta in volta i trattamenti meno gravosi possibili per affrontare una patologia, ma di declinare i parametri della futilità e della gravosità nella concretezza di ciascuna situazione clinica ed esistenziale. A questo va inoltre aggiunta la strutturale incertezza della medicina: non siamo nel campo delle scienze esatte e non è mai possibile conoscere con precisione l’esito di una terapia. Il giudizio sulla proporzionalità, inoltre, varia in relazione al progresso scientifico e, come tale, ha sempre una dimensione paradigmatica nel senso khuniano del termine.
Pur tenendo presente questo orizzonte variabile, oc-corre riconoscere che evitare trattamenti inadeguati e sproporzionati non è solo una questione clinica, ma qualcosa di eticamente doveroso. E questo proprio per quanto vedevamo prima: l’obiettivo non è la malattia da sconfiggere, ma un malato da curare che si manifesta attraverso una malattia oggettivamente monitorata ed esistenzialmente vissuta. E la cura del malato, sempre possibile, richiede a volte di limitare o addirittura sospendere trattamenti che semplicemente rallentano un processo di morte ormai irreversibile. Nella prassi medica c’è, e dovrebbe esserci, lo spazio per una valutazione in scienza e coscienza che riconosca dove accompagnare significa lasciar andare, senza tuttavia aprire a prassi eutanasiche di alcun tipo.
La ritrosia ad accettare, a livello sociale o nella comunità scientifica medica, il criterio di sospensione dei trattamenti quando questi si rivelano sproporzionati, nasce dalla confusione concettuale tra uccidere e permettere di morire. Non si tratta di un problema formale, appannaggio delle aule universitarie, ma di una distinzione che, oltre alla ricaduta nella prassi medica -e non solo medica- condiziona pesantemente le relazioni tra gli uomini e la convivenza civile. Imparare a guardare la morte significa riconciliarsi con la condizione mortale dell’uomo. Se l’essere mortali accomuna tutti gli uomini, il processo che porta alla morte è però diverso per ciascuno e a questo riguardo, è di senso comune dirlo ma frequentemente è dimenticato, l’uguaglianza dell’esito è, per certi versi, ininfluente. In ambito medico ci si trova spesso, particolarmente in alcuni reparti, ad assistere persone che, per una patologia che si è sviluppata progressivamente o per un evento traumatico, vivono più o meno coscientemente il processo del morire. Si tratta dell’ultima battaglia di cui parlavamo prima. Quando la patologia ha ormai provocato un processo irreversibile di morte, mentre rimangono doverosi gli interventi di cura ordinaria e di palliazione del dolore, altri interventi medici equivarrebbero solo a prolungare tale processo, senza un vero benefi cio del paziente stesso. Alcuni interventi possono anche configurarsi come troppo gravosi per il soggetto, con un rapporto costi-benefici sproporzionato per eccesso sui costi (chiaramente l’accento non è posto sui costi finanziari della struttura sanitaria, ma sull’onerosità del trattamento per il paziente rispetto ai benefici che ne ricava). Non si tratta tanto di una generica valutazione della qualità di vita, peraltro importante e di cui parle-remo più avanti, ma di una valutazione che abbia per oggetto quel concreto intervento medico. In questi casi la sospensione dei trattamenti semplicemente permette alla patologia di fare il suo corso. Totalmente diverso è il caso di azioni che mirino a provocare direttamente la morte o somministrando farmaci letali, o sottraendo trattamenti e cure la cui assenza causa la morte. Ciò che porta alla morte non è –solo- la patologia, ma anche l’azione omissiva umana.
Certamente, tutto questo richiede di affrontare la fatica di un discernimento delle situazioni evitando di ricadere in schematismi che non permettono di comprendere la complessità. Alcune letture, di fatto, non aiutano a distinguere contenutisticamente e moralmente gli atti compiuti. Pensiamo ad esempio al celebre caso proposto da Rachels sull’azione e, apparentemente, non azione di due uomini nei confronti di un bambino di sei anni (1). I due adulti, Smith e Jones, sono nella medesima situazione: ciascuno ha un cuginetto di sei anni la cui morte farebbe loro ereditare una grossa somma di denaro ed entrambi progettano di affogare il bambino. Smith entra nel bagno mentre il cuginetto è nella vasca e lo affoga facendo poi in modo che sembri un incidente. Anche Jones entra nel bagno, ma in quel momento vede che il bambino, scivolando, batte la testa, perde i sensi e finisce con la faccia nell’acqua: Jones non ha bisogno di fare alcunché, semplicemente rimane immobile lasciando che il bambino affoghi. Secondo Rachels questo caso mostrerebbe l’equivalenza dei due atti: effettivamente Jones non affoga il cuginetto, ma non facendo nulla per salvarlo è responsabile tanto quanto Smith della sua morte. Il ragionamento di Rachels fa poi un passo ulteriore: i due atti hanno la medesima gravità morale, ma poiché in alcuni casi si legittima la sospensione delle cure –che, se protratte, posticiperebbero di un po’ la morte-, analogamente in alcuni casi è lecito dare la morte (eutanasia attiva). L’errore, abbastanza palese, sta nell’incapacità di distinguere atti dovuti -–Jones avrebbe potuto salvare il bambino, ma non l’ha fatto- in quanto non sono né sproporzionati né futili, da atti di sospensione che rico-noscono l’ineluttabilità prossima di un evento o la loro sproporzione rispetto alla situazione clinica del paziente. Nel primo caso si tratta di abbandono –o, in termini più comuni- di omissione di soccorso. Nel secondo caso siamo di fronte a una sospensione dei trattamenti pur continuando a farsi carico del paziente attraverso la cura che, in quanto tale, non può mai essere sospesa. La confusione è amplificata anche dall’ambiguo termine di “eutanasia passiva” che Rachels utilizza dando a quell’espressione di volta in volta due estensioni diverse, intendendo ora la sospensione dei trattamenti, ora l’abbandono terapeutico. La liceità della sospensione, dunque, non legittima affatto l’abbandono e, parallelamente, non sussiste alcuna analogia che legittimi atti volti a dare intenzionalmente la morte.
Omissione e sospensione. La differenza tra le due azioni sfuma solo se si sposta il peso della valutazione sull’intenzione o sulle conseguenze, la cui omogeneità veicolerebbe l’equivalenza morale degli atti. Puntando l’attenzione sulle conseguenze, qualora il decesso sia considerato sempre e comunque un male, data l’equiparazione dei due atti verrebbe meno la possibilità stessa di cadere nell’accanimento terapeutico: in altre parole, nessun intervento potrebbe essere in alcun modo valutato come accanimento terapeutico perché qualsiasi azione volta a ritardare almeno di un po’ la morte sarebbe non solo lecita, ma anche doverosa.
Guardiamo invece alla seconda possibilità indicata. Qualora la discriminante sia individuata nell’intenzione, la morte sarebbe alternativamente un bene o un male secondo l’intenzione di chi ha la facoltà di decidere in quel momento. Verrebbe meno, pertanto, la possibilità di rinvenire una oggettività per comprende-re se un atto è proporzionato o meno e, parimenti, se non proseguire i trattamenti sia una sospensione o un abbandono. Ma in questo modo cadrebbe il dovere di tutelare le categorie -o meglio, gli individui- più deboli riconoscendo un contenuto valoriale minimo che non può essere messo in discussione. La sovraesposizione del ruolo dell’intenzione porterebbe, infatti, a celebrare l’autodeterminazione come l’unica fonte del diritto. Questo apre una serie di problemi che, per esigenze di sintesi, non possiamo qui esaminare. Ci limitiamo ad accennare al fatto che ci possono essere situazioni in cui il soggetto, per una patologia, per la pressione sociale o altro, non è in grado di autodeterminarsi. Se non si facesse riferimento a un diritto riconosciuto contenutisticamente, tale situazione lo metterebbe in balia del volere altrui aprendo la porta al sopruso del più forte. La stessa liceità della figura del tutore nei casi in cui la persona non è in grado di intendere e di volere, affonda le radici nella riconoscibilità intersoggettiva –ossia oggettiva- di alcuni beni che vanno tutelati e di cui il tutore si fa garante. Se così non fosse, questi diverrebbe paradossalmente non la voce di colui che non può esprimersi, ma il suo padrone, senza alcuna possibilità di verifica pubblica del suo operato. L’indisponibilità della vita è, di diritto e di fatto, un requisito minimo della convivenza civile. Paradossalmente, non riconoscere questa verità apre la possibilità tanto all’abbandono come all’accanimento terapeutico.
Abbiamo prima accennato al tema della qualità di vita. Non si tratta di contrapporre, falsamente, il rispetto della vita con la tutela della qualità della vita. Sarebbe un fraintendimento troppo grave. La qualità della vita è importante; ogni volta che ci prendiamo cura, in diversi modi, di un essere umano, stiamo cercando di migliorare la sua qualità di vita. Ma non è questa a fondarne il valore. È proprio perché l’essere umano ha valore, sempre e comunque, che ci prendiamo cura della sua qualità di vita cercando di migliorarla. Una bassa qualità di vita, concetto peraltro diffi cilmente misurabile, non è mai un criterio adottabile per abbandonare l’uomo. Viceversa, il valore dell’essere umano è fondamento e giustificazione dello sforzo comune, con lui e per lui.
LE CURE PALLIATIVE: SUPERARE LA DICOTOMIA DI CURARE E PRENDERSI CURA
Le cure palliative, concreta riposta alla cura di colui che si trova in una fase terminale della malattia, si inseriscono in questo orizzonte valoriale. Richiamare la necessità di un ripensamento della medicina che parta dal valore intrinseco di ogni essere umano è al contempo una necessità e una sfida. “Il medico che, sulla base del progresso tecnico-scientifico, è in grado di fare cose così inaudite”, scrive Jaspers, “diventa interamente medico solo quando assume tale pratica nel suo filosofare” (2). Di fatto le nuove frontiere raggiunte, l’accresciuta capacità tecnica, diagnostica e di intervento, sembrano sbilanciare la rifl essione intorno alla natura dell’arte medica sul versante della ricerca e delle abilità, ma solo se questo aspetto è coniugato con il versante, propriamente umano, del senso e del significato, la medicina non tradisce se stessa evaporando in un sapere tecnico fattuale. Ma tale dimensione, come nota Jaspers, richiede l’emergere di categorie che non appartengono più alla scienza empirica e che interpellano quell’amante della sapienza (fi lo-sofo) che alberga nel medico in quanto uomo.
Apparentemente questo rapido accenno ad un tema tanto vasto sembra quanto mai lontano dall’oggetto del nostro discorso, tuttavia ad uno sguardo meno frettoloso apparirà chiaro che le cure palliative sottendono un senso della medicina affatto scontato. Queste, infatti, entrano in campo quando la medicina sembra dover arrendersi al proprio limite e alla finitezza della condizione umana. Eppure se, come abbiamo già visto, l’orizzonte di riferimento non è questa o quella pato-logia da combattere ma, a fronte di una diagnosi, un essere umano da curare, l’impossibilità di sconfi ggere la malattia e di allontanare la morte non sancisce la sua uscita di scena, ma continua ad interpellarla. È significativo che le cure palliative, nate in Inghilterra negli anni ’60, siano state introdotte da un’infermiera che aveva conseguito anche la laurea in medicina. La professione infermieristica, che per la propria specifi cità porta più di quella medica a prendersi quotidianamente e concretamente cura delle persone malate, può facilitare la comprensione di ciò che sfugge alle maglie tecniche del sapere scientifico. Cicely Saunders, coniugando le sue conoscenze di medico e di infermiera, si rende conto dell’insufficienza delle cure prestate ai morenti negli ospedali e, nel 1967, fonda alla periferia di Londra il St.Christopher, il primo hospice.
Nonostante le diffuse difficoltà, per cui ancora molti malati terminali non possono accedervi, c’è oggi un consenso pressoché unanime sulla liceità delle cure palliative e si concentra l’attenzione sulle concrete modalità per la loro attuazione. È però interessante mettere in luce le premesse antropologiche ed etiche implicite a questa pratica, premesse che, se comprese, possono illuminare altri ambiti della prassi medica ed assistenziale.
Come è noto il termine palliazione deriva dal latino pallium, un tipo di mantello in uso tra i greci e i romani. Dall’iniziale accezione negativa in cui palliare in qualche modo è stato visto come sinonimo di nascondere e coprire -in quanto non si rimuovono le cause della malattia-, poco a poco negli ultimi decenni ha assunto una valenza positiva. Il riferimento al termine latino può essere letto a due livelli. Il primo, più tradizionale, fa riferimento al mantello che copre tutta la persona per indicare un’azione multidisciplinare che, oltre al trattamento del dolore, si fa carico anche della dimensione sociale, psicologica e spirituale. Il secondo livello considera il rapporto continuato, la relazione persona-le richiesta dalle cure palliative. Il pallio, infatti, era il mantello feriale della persona del popolo, ossia di colui che sperimentava quotidianamente il bisogno della vicinanza e del sostegno di chi gli stava accanto: in questo senso pallium sottolinea, come fa notare Peruggia, “la particolarità puntuale, quotidiana, personalizzata della cura stessa” (3). Tale positivo e ricco signifi cato delle cure palliative sottende quindi l’abbandono di uno dei modelli culturali dominanti, ossia quello proprio della logica di produzione, del risultato quantificabile e settoriale.
Nella complessità del panorama culturale e scientifi co odierno, le cure palliative, se ben intese, sembrano rompere la logica contrappositiva di tecnico ed umano e costituiscono un gradino importante di umanizzazione del contesto socio-sanitario. Nell’utilizzare il termine umanizzazione, al di là della banalizzazione di cui può essere fatto oggetto, intendiamo in modo forte una modalità relazionale in cui gli elementi intrinseci e contestuali della relazione stessa sono assunti secondo la dimensione propriamente umana, ossia interpersonale. Questo significa che la funzione svolta –la cura di una piaga, la somministrazione di una medicina, il supporto psicologico ad una fase depressiva o altro ancora- non esaurisce la relazione, ma ne è, in qualche modo, solo la causa. Ci si avvicina al malato in quanto professionisti, ognuno è chiamato perché ha delle competenze specifiche, delle funzioni da svolgere, ma la relazione è propriamente umana nella misura in cui non mette in gioco solo la funzione, ma riconosce nell’altro un soggetto che condivide con il professionista la medesima umanità e che, al contempo, in quanto individualità irripetibile si sottrae alla pretesa di esaustiva comprensione del suo sguardo. Paradossalmente, questo vale anche se l’altro fosse incosciente, perché agire in questo modo renderebbe comunque umana l’azione e fa crescere come persona lo stesso operatore sanitario.
Riconoscere il dovere della cura di chi è prossimo alla morte porta a riaffermare quanto abbiamo già accen-nato sul binomio valore dell’uomo e qualità di vita. Questa dimensione della cura, infatti, sottende che sia il valore –o per meglio dire la dignità- dell’essere umano, e non altri parametri, a giustificare che ci si adoperi per migliorare la sua qualità di vita. Non vale invece l’inverso. In altre parole: non è la qualità di vita a dare valore all’uomo –per cui quando questa è lesa anche il valore di questi diminuisce o si annulla-, ma la dignità intrinseca dell’essere umano a dare senso allo sforzo per migliorare comunque le sue condizioni di vita. Il misconoscimento di questa priorità è, per certi versi, una conseguenza di un modello funzionalista in cui la capacità operativa (prima sulla base del modello meccanico e, più recentemente, di quello computazionale) è assunta a paradigma interpretativo di tutta la realtà. Perdendo di vista la specificità dell’umano, infatti, la dignità del soggetto non è più riconosciuta come intrinseca, ma viene fatta dipendere da condizioni misurabili, variabili e, in fondo, transitorie. Spesso, infatti, pensiamo all’uomo secondo l’immagine dell’adulto sano e con un alto grado di indipendenza, ma questa visione non solo non tiene conto di coloro che non sono in questa condizione pur continuando ad essere, come gli altri, esseri umani, ma dimentica anche che per ciascuno di noi questa è destinata ad essere una fase transitoria. Tale prospettiva, certamente condiziona il modo con cui ci prendiamo cura dei morenti, ma le conseguenze sociali sono ancora più vaste. Se, infatti, il riconoscimento del valore altrui passa attraverso criteri salutistici, si annulla l’uguaglianza tra gli uomini e si creano categorie antropologiche discriminanti che relegano al margine della società chi, ad esempio, ha disabilità fi si-che o mentali. Se le persone con disabilità non hanno valore, inoltre, anche il lavoro di chi se ne prende cura ne è privo. Ma se questo non ha valore risulta allora non solo giusto, ma persino doveroso evitare di investire risorse umane ed economiche che potrebbero essere meglio spese altrove. Si tratta di prospettive tutt’altro che teoriche e che stanno sempre più emergendo nel dibattito bioetico e prendendo corpo in concrete proposte di legge. Come si vede, quella che sembra una circoscritta riflessione su un settore della medicina apre temi ampi, che coinvolgono la comprensione che abbiamo di noi stessi come esseri umani e delle basi della stessa convivenza civile. L’attenzione accordata alle cure palliative può, pertanto, essere un ulteriore occasione per riaffermare l’irrinunciabilità, di fatto e di diritto, del riconoscimento dell’uguale valore di ogni essere umano a prescindere dalle condizioni che ne segnano l’esistenza.
Quanto stiamo considerando nel caso del malato terminale significa innanzitutto tornare ad umanizzare la morte sottraendola al dominio dicotomico dell’abbandono o dell’accanimento terapeutico. Abbiamo già indicato come questi estremi siamo due facce della stessa medaglia: il mancato riconoscimento del limite sia del-le possibilità di intervento sia della condizione umana, sfociano spesso o nel protrarre inutilmente processi irreversibili che porteranno alla morte, con interventi sproporzionati e straordinari rispetto alla situazione del soggetto, o ad abbandonare anzitempo il campo, valutando il malato secondo i parametri della qualità di vita. Ma queste due alternative, tanto scientifi camente quanto eticamente inaccettabili, non sono le uniche strade percorribili.
“Areazione della stanza, attenzione costante alla posizione del malato sul letto, presenza dei parenti, astensione da ogni ricorso inutile alla chirurgia, trattamenti sintomatici e palliativi”. Sorprenderà scoprire che questa descrizione degli elementi a cui prestare attenzione nella cura di una persona vicina alla morte è tratto da un testo del 1826 che descrive il significato del termine eutanasia (4) Buona morte (dal greco eu-thanatos), per quanto riguarda le azioni delle diverse figure di operatore sanitario, significa proprio questo: prendersi cura del malato evitando interventi inutili, utilizzando tutti i mezzi a disposizione per migliorare il suo benessere, considerando tutte le dimensioni della persona, compresa quella relazionale e affettiva.
Si concreta qui l’accenno sopra fatto all’approccio multidisciplinare che caratterizza le cure palliative. Il primo livello è chiaramente quello fisico, in cui il controllo del dolore ha una ruolo di primo piano, ma contemporaneamente il pallium che copre tutta la persona deve arrivare anche alla dimensione relazionale, psicologica e spirituale. Le attuali conoscenze scientifi che permettono con molta più facilità che in passato di far fronte al dolore, ma il suo controllo lascia comunque intatto il problema della sofferenza che investe la dimensione morale ed esistenziale della persona richiedendo una riposta di tutt’altra natura. Lo stesso dolore, se considerato all’interno di uno sguardo ampio sulla persona, acquista uno portata ben più ampia della sua dinamica fisiologica. Questi, infatti, ripiega il soggetto su se stesso chiudendo o rendendo difficile l’apertura intenzionale del suo corpo. Gli altri, l’ambiente, i diversi beni, sono come oscurati dalla percezione del dolore che può persino arrivare ad imporsi come un protagonista assoluto all’attenzione del soggetto. È questa un’esperienza comune che si dà anche nella nostra quotidianità: non percepiamo i nostri denti finché non ci fanno male, e se il dolore è intenso è diffi cile concentrarsi su altro; il nostro tatto ci apre alla realtà esterna, sentiamo caldo o freddo, percepiamo una carezza, il liscio o il ruvido di un oggetto, ma se abbiamo una ferita qualsiasi contatto con quella parte del corpo ci fa percepire non tanto l’oggetto, quanto il corpo dolente. Quando il dolore o il disagio fisico è troppo alto, dunque, per il malato è molto più difficile lasciare spazio ad altre dimensioni che pure sono essenziali per la sua esistenza: gli affetti, la possibilità di compiere ancora atti significativi per sé e per gli altri, l’espressione delle proprie emozioni, la cura e la manifestazione del proprio senso religioso e della propria fede.
In questo discorso rientra anche il tema dell’uso di analgesici che possono obnubilare e persino annullare la coscienza. Proprio perché la coscienza è un bene proprio ed alto della persona, è chiaro che, per eliminarla, deve esserci una causa proporzionatamente grave. Tuttavia, quando tale intervento si rivela come l’unico modo di controllare il dolore, si connota come un atto di cura. Benché diversi studi sembrino mostrare come, dal punto di vista statistico, la sopravvivenza di pazienti sedati in fase terminale non differisca da quella di pazienti non sedati (5), in linea teorica questa sorta di “coma artificiale” potrebbe anche portare, in alcuni casi, ad accelerare il processo di morte. Questo intervento non è in alcun modo equiparabile ad un atto eutanasico in quanto la natura e le dosi dei farmaci sono adeguati al controllo dei sintomi e l’eventuale accelerazione del processo di morte è una conseguenza secondaria e non voluta. La causa della morte non è quindi l’azione compiuta, ma la patologia.
A prescindere da questa eventualità, comunque, la diminuzione o l’annullamento della coscienza non può mai darsi senza il consenso dell’interessato. Questi, infatti, potrebbe rifiutarlo non tanto negandone la liceità, quanto a causa di valori sovraordinati che hanno la precedenza: voler sistemare doveri famigliari e sociali ad esempio, oppure potersi accomiatare da persone care che non sono presenti, o poter ricevere assistenza religiosa per chi è credente.
Quanto stiamo dicendo mette in luce un aspetto molto importante: il modo in cui affrontiamo la morte, propria e altrui, dipende dal modo in cui affrontiamo la vita. Senza indulgere a facili artifici retorici, occorre infatti chiedersi che cosa riteniamo davvero importante nella vita e, quindi, che cosa rimane come valore di fronte alla morte. Dostoevskji, in uno dei suoi romanzi, narra il ricordo di un personaggio che aveva guardato in faccia la propria morte. Probabilmente facendo riferimento alla sua esperienza personale (nel 1849 era stato condannato alla fucilazione, che, pochi istanti prima dell’esecuzione, era stata sospesa) descrive come per un condannato, dopo la lettura della sentenza e mentre attendeva il suo turno per essere giustiziato, tutto aves-se assunto un’importanza nuova: «Diceva che quei cinque minuti gli erano sembrati un tempo interminabile, un’immensa ricchezza; gli pareva che in quei cinque minuti avrebbe vissuto tante vite, che per il momento non c’era ancora da pensare all’ultimo istante, sicché prese varie risoluzioni; calcolò il tempo occorrente per dare l’addio ai compagni, e per questo fi ssò un paio di minuti; poi fissò altri due minuti per pensare a se stesso, e il resto per guardarsi intorno un’ultima volta. (…) Ma diceva che per lui niente era stato così penoso, in quel momento, come l’incessante pensiero: “se potessi non morire! Se si potesse tornare indietro la vita, quale infinità! E tutto ciò sarebbe mio. Allora trasformerei ciascun minuto in un intero secolo, non ne perderei nulla, terrei conto di ogni minuto e non ne sprecherei più nessuno!”» (6). La pregnanza antropologica ed esistenziale degli atti compiuti e da compiere emerge con forza quando la finitezza dell’esistenza ci si presenta in tutta la sua concretezza. Accogliere in una struttura o organizzazione sociosanitaria un servizio di cure palliative richiede dunque, per chi vi lavora, anche sapersi porre di fronte ai quesiti di senso. Non si tratta di imporre ad altri le proprie risposte, ma di riconoscere tali domande come propriamente umane e, in un’ultima analisi, come irrinunciabili. Ri-conoscere, ossia tornare a conoscere perché, in qualche modo, se ne è fatta o se ne sta facendo esperienza. E così chiudiamo questi brevi spunti richiamando nuovamente l’esigenza di una riflessione che parte dalla medicina, ma ne trascende i confini. Jaspers chiede al medico di riassumere la propria prassi nel suo filosofare ma, come dice Agostino (7), la vocazione originaria della fi losofia è proprio quella di dare risposta al problema della vita.
Il testo completo della ricerca è pubblicato, insieme ad alcuni saggi di commento, in A. Pessina (a cura di) Scelte diconfi ne in medicina. Sugli orientamenti dei medici rianimatori, Vita e Pensiero, Milano 2004.
REFERENZIE
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